Per comprendere il problema e le soluzioni possibili alla disoccupazione dal punto di vista di chi oggi è senza lavoro, il Professor Raffaele De Mucci, docente di Sociologia politica alla LUISS, ha pubblicato per Rubbettino la raccolta di saggi Disoccupazione, imprenditorialità e crescita.
Curato assieme alla ricercatrice LUISS Rosamaria Bitetti, il libro nasce dal lavoro del gruppo di ricerca LUISS Laps e da una collaborazione con il CFI – Cooperazione Finanza Impresa – per capire quali motivi impediscono ai disoccupati italiani di risolvere il problema trasformandosi in imprenditori. "Il tema dei rapporti fra disoccupazione e imprenditoria allarga la questione alla predisposizione all'imprenditorialità anzitutto come problema culturale che va ad incidere sullo sviluppo professionale" afferma il Professor De Mucci.
"Nella nostra coscienza civica mancano molti dei riferimenti culturali che appartengono agli altri paesi: lo spirito del capitalismo di Max Weber, la predisposizione all'alertness di Israel Kirzner o la creatività distruttrice di Joseph Schumpeter. Queste formule di innovazione vengono confinate negli stereotipi della teoria economica, mentre dovrebbero far parte dei modelli che orientano tutte le attività professionali e politiche".
Gli effetti di queste carenze sono evidenti, come dimostra l'Index of Global Entrepreneurship dell'OCSE, che colloca l'Italia al quarantottesimo posto (sopra solo al Messico) nell'attitudine al lavoro imprenditoriale. "Secondo i dati dell'Eurobarometro, solo l'11% degli italiani è disponibile ad aprire un'impresa, mentre il 68% non ci ha neanche mai pensato. A completare il quadro negativo, l'invecchiamento dei nostri imprenditori (l'80% è fra i 50 e i 60 anni, contro il 5% degli under 40) e lo scarsissimo ricambio generazionale del sistema imprenditoriale. Le cause vanno secondo me cercate nei miti del welfare state e nelle aspettative crescenti nei confronti dell'assistenzialismo statale, ma hanno senz'altro contribuito anche il fallimento delle politiche del lavoro e la diffusa diffidenza verso il privato e il mercato".
Alla base delle nove riflessioni contenute nel libro, un questionario impostato su sei variabili distribuito a 750 disoccupati italiani. "Il nostro obiettivo era cercare di scavare nell’imprenditorialità latente dei disoccupati, ma dalle domande e dalle risposte delle interviste emerge che chi è senza lavoro è poco propenso ad assumere il ruolo e le responsabilità dell'attività imprenditoriale. Rispetto alla crisi congiunturale, sono i più giovani (15-24 anni), nati e cresciuti nella recessione, i meno ottimisti. Un sentiment che si redistribuisce sulla fascia di 'mezza età' dei disoccupati (35-45 anni) e che porta a gravi forme di pressione sociale e al fenomeno inquietante dei NEET (Not Engaged in Education, Employment or Training). È quasi un paradosso, ma troviamo più ottimismo nel Meridione, a riprova della resilienza di chi affronta una crisi strutturale di lungo periodo contro chi vive una crisi ciclica solo negli ultimi anni".
Per stimolare nuove iniziative come l'apertura di startup o la costituzione in cooperative è fondamentale il contesto in cui operano le strutture di impresa. Quello che il Professor De Mucci chiama l'ecosistema imprenditoriale, ovvero "l'insieme di fattori e variabili che condizionano le strutture d'impresa fornendogli le risorse finanziarie e i supporti socio-economici che possano favorirne la crescita. Tra questi fattori (accesso ai capitali, accesso al mercato, la mancanza di policy di sostegno), quello che risulta maggiormente ostativo è l'accesso al credito, ai risparmi da investire e ai finanziamenti dalle banche. Ma, oltre al cambiamento dei valori e dei modelli culturali, le misure che influirebbero in modo positivo sono le policy di sostegno finanziario, come dimostra l’esperienza del CFI e il modello del workers buy-out, in cui i lavoratori di un'azienda in fallimento costituiscono una cooperativa e rilevano l'impresa".
Tra le cause che rallentano la crescita e l'occupazione in Italia, il volume prende in considerazione anche il ruolo della corruzione. "Sappiamo bene che gli scarsi investimenti esteri in Italia sono motivati da eccesso di burocratizzazione, inefficienza giudiziaria e legami di corruzione tra potere politico e potere economico. Nel mondo imprenditoriale ci sono reti insidiose e reti virtuose: il capitalismo relazionale è quello che per competenze professionale si oppone al capitalismo assistenziale o clientelare, detto anche dagli anglosassoni crony capitalism. Le reti familiari sono una forma di degenerazione dell’impresa, laddove invece le reti virtuose del networking sono strutturate per favorire e rafforzare le competenze".
Anche per questo, molti dei problemi della scarsa creatività imprenditoriale in Italia chiedono soluzioni di natura culturale. "Competenza professionale e virtù civiche sono i due termini che da Platone a Hume sono al centro del dibattito culturale, che oggi vediamo rimodulate in termini di rapporto tra tecnocrazia e democrazia o tra onestà e capacità di governo. In ogni caso – conclude il Professor De Mucci - occorrerebbe trovare dei punti di equilibrio tra competenze tecnico-professionali e associazionismo delle reti sociali. Un equilibrio che solo lo sforzo combinato di scuole e politiche possono fornire".