Giovedì 13 novembre l'economista Paul A. David, Professore emerito alla Stanford University, è stato ospite in LUISS con una lezione intitolata The Innovation Fetish among the Economoi in cui ha esposto le sue tesi provocatorie sul ruolo dell'innovazione nei processi economici.
Ospite del Dipartimento di Impresa e Management, il Professor David ha messo in rassegna i vari motivi per cui ritiene che gli economisti moderni (gli Economoi, ovvero quei gruppi più o meno stabili di economisti capaci di influenzare i comportamenti sociali e politici) diano troppa importanza alla caccia alla novità. "Il feticismo dell'innovazione colpisce i suoi seguaci, in particolare quegli economoi particolarmente attenti ai cambiamenti tecnologici e al loro impatto sulla crescita economica e il benessere universale, con un'attenzione irragionevole per i nuovi modelli di business e una devozione quasi sciamanica per la commercializzazione di nuovi processi e prodotti".
Le sue idee sulla criticità del rinnovamento ha iniziato a svilupparle due anni fa, in occasione di una conferenza al National Bureau of Economic Research (NBER) di New York per i cinquant'anni dall'uscita di un celebre raccolta di saggi del 1962, intitolata The Rate and Direction of Inventive Activity. "Lo scenario degli anni Sessanta vedeva crescere l'attenzione degli economisti statunitensi verso i cambiamenti tecnologici. Oggi, invece, si dà per scontato che l'innovazione sia sempre una cosa buona, un apporto positivo al benessere della società. Queste fissazioni si sono diffuse ben oltre gli economoi e hanno toccato i leader politici nazionali e gli uomini a capo delle fondazioni pubbliche e private, che tendono a disperdere nelle novità più effimere i finanziamenti destinati a educazione e ricerca".
Il contributo del Professor David si concentra proprio sulle conseguenze sociali e politiche di questa ideologia che arriva a escludere o a disinteressarsi dei problemi reali che l'innovazione comporta, "come le licenze e i brevetti, oppure i costi di gestione derivati dall'introduzione di nuovi prodotti all'interno di una certa impresa". La sua visione propone un approccio sistemico, utile a identificare l'importanza di tutte le varie fasi che compongono l'innovazione e a capire che il rinnovamento continuo è un'impresa impossibile e paradossale. "Accelerare il tasso di innovazione equivale a garantire che oggetti oggi nuovi e superiori appaiano obsoleti domani agli occhi del mercato e che potenziali acquirenti rimandino l'acquisto delle nuove apparecchiature adesso disponibili, a scapito dei profitti dell'azienda e della sua abilità a finanziare le tecniche per migliorare il mercato dei futuri vecchi prodotti".
La proposta dell'economista americano è quella di tornare a prendere in considerazione l'ipotesi che enough is enough: che si possa raggiungere un punto in cui più innovazione equivale a peggiorare lo stato delle cose. "Se esiste davvero un tasso ottimale di innovazione per ogni ramo del settore economico e industriale, questo non può essere sempre positivo. Anche l'evoluzione biologica degli individui prevede delle pause durante le quali i nuovi caratteri funzionali si fissano e si stabilizzano nel pool genetico della popolazione".
Come per l'essere umano, dunque, anche il ciclo vitale delle economie e delle imprese prevede delle fasi in cui "stabilizzare e perfezionare i risultati di routine può risultare più efficace rispetto a sfruttare solo le opportunità di rinnovamento radicale in vista di una performance sempre migliore". Fermarsi a guardare i vari processi di cambiamento in atto è la vera formula per superare il feticismo dell'innovazione. "Aggregando assieme processi di innovazione fra loro simili a livello micro e medio, un'economia diversificata può godere gli effetti di un ritmo medio di innovazione più o meno stabile anche a livello macro. Liberarci dalla morsa del feticismo dell'innovazione potrebbe portare a una gestione politica più attenta e a un utilizzo sapiente dell'innovazione in base al suo ruolo specifico nella crescita economica".