Mario Draghi, sul Financial Times, ha fornito un contributo interessante al dibattito sulle politiche di contrasto alla pandemia del Coronavirus. Cosa si può ritenere dell’analisi del rimpianto ex presidente della Bce? Andiamo per punti.
- In primo luogo, e Draghi non è il primo a dirlo, è chiaro che non si tratta di una crisi keynesiana “classica”. Si fondono come neve al sole sia la domanda aggregata, vittima di un crollo dei redditi e di un’incertezza che regna sovrana, sia l’offerta aggregata, vittima di catene del valore internazionali che sono disarticolate, e del crollo degli ordini.
- Inoltre, e questa è quasi la sola ragione di cauto ottimismo, l’origine della crisi è chiaramente esogena, cioè esterna alle nostre economie. Questo significa che, se essa sarà gestita come si deve, una volta messa alle nostre spalle la pandemia potremmo ripartire abbastanza in fretta. Si può quindi sperare in una traiettoria a “V”, con il crollo brutale seguito da un altrettanto violenta ripresa. La sfida è di evitare una “U”, o ancora peggio una “L”.
- La sfida per governi e banche centrali è quindi quella di evitare che le difficoltà temporanee di imprese fondamentalmente sane ne causino il fallimento. Quando l’economia ripartirà, occorrerà che il sistema produttivo sia il meno danneggiato possibile, e quindi in grado di accompagnare la ripresa dei consumi e della domanda aggregata. Si tratta insomma di tenere a galla le imprese, soprattutto piccole e medie, che oggi non sono in grado di far fronte ai loro impegni finanziari. Whatever it takes, come si è detto.