Dopo oltre due anni di intensi dibattiti, la Sezione Lavoro del Tribunale di Roma, con ordinanza del 26 luglio 2017, ha ritenuto fosse giunto il momento di porre in discussione la tenuta costituzionale di quello che può essere considerato il fulcro del Jobs Act e, a ben vedere, il simbolo dell’azione riformista portata avanti dal Governo Renzi, vale a dire il contratto a tutele crescenti. Così, ha sollevato la questione di incostituzionalità degli artt. 2, 3, 4 e 10 del d.lgs. n. 23 del 2015 per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 4, 35, 76 e 177 comma 1 Cost.
A ben vedere, per motivare l’incostituzionalità del contratto a tutele crescenti, il giudice remittente avrebbe potuto seguire le numerose “piste” di incostituzionalità suggerite in questi due anni dalla copiosa dottrina che ha aspramente criticato il Jobs Acts. Invece, il giudice rimettente ha preferito soffermarsi su alcune questioni di giustizia sottese alla novella legislativa, tralasciando di far proprie quelle censure che erano già state affrontate dalla Corte costituzionale in precedenti sentenze. Così, il giudice rimettente, dopo aver implicitamente fatta salva la sostanza della riforma Fornero, assurta anche a tertium comparationis, ha da subito chiarito di non ritenere incostituzionale l’abolizione della reintegrazione sulla scorta di quell’orientamento della Corte costituzionale, da ultimo ribadito con sentenza n. 303 del 2011, secondo cui “la regola generale di integralità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale”.
Sgomberato il campo dalla questione relativa alla legittimità costituzionale dell’abolizione della tutela reintegratoria, l’ordinanza di rimessione fonda le proprie censure di incostituzionalità sull’entità dell’indennità sanzionatoria del licenziamento privo di giustificato motivo oggettivo che il legislatore avrebbe determinato in misura “irrisoria”, “evanescente”, “inadeguata”, “modesta” e “fissa”. Secondo il Tribunale di Roma, infatti, l’indennità risarcitoria individuata dal legislatore con le disposizioni tacciate di incostituzionalità, in quanto “esigua”:
- produrrebbe una “ingiusta” disparità di trattamento tra lavoratori assunti prima e dopo la data di entrata in vigore della normativa tacciata di incostituzionalità (7 marzo 2015);
- priverebbe di qualsiasi carattere “deterrente, “sanzionatorio” o “punitivo” l’indennità risarcitoria, così determinando “di fatto un ripristino della libertà assoluta di licenziamento”.
Si tratta di due conseguenze che, a ben vedere, lungi dallo scaturire dall’entrata in vigore del “Jobs Act”, sono connaturate al recente diritto del lavoro e difficilmente possono essere evitate senza sacrificare (come invece ritengono di poter fare molti critici della riforma) altri valori di pari rango costituzionale come, ad esempio, il diritto al lavoro dei disoccupati, la libertà di iniziativa economica privata, e quindi la capacità competitiva delle imprese in un mercato globale, e, non da ultimo, la necessità di certezza del diritto di tutti gli operatori del sistema. Il necessario contemperamento dei valori affermati dalla nostra Costituzione è infatti scelta eminentemente politica che chi ha la responsabilità di governare è chiamato ad assumere in relazione alle contingenze del momento.